n. 03 - giugno 2022

 Raffaele Buganza

Burosumab nell'ipofosfatemia X-linked pediatrica: l’effetto cambia nelle diverse età?
J Clin Endocrinol Metab. 2022 May 9:dgac296. Epub ahead of print. doi: 10.1210/clinem/dgac296

https://doi.org/10.1210/clinem/dgac296

Titolo originale:  Impact of Burosumab Compared with Conventional Therapy in Younger Versus Older Children with X-Linked Hypophosphatemia

Impatto del burosumab confrontato con la terapia convenzionale nei bambini più piccoli rispetto a quelli più grandi con ipofosfatemia X-linked

Ward LM1, Glorieux FH2, Whyte MP3, Munns CF4,5, Portale AA6, Högler W7,8, Simmons JH9, Gottesman GS3, Padidela R10, Namba N11, Cheong HI12, Nilsson O13,14, Mao M15, Chen A15, Skrinar A15, Roberts MS15, Imel EA16

1Department of Pediatrics, Faculty of Medicine, University of Ottawa, Ottawa, Ontario, Canada. 2Shriners Hospitals for Children, Canada, McGill University, Montreal, QC, Canada. 3Shriners Hospitals for Children St Louis, St Louis, MO, USA. 4Child Health Research Centre, The University of Queensland, Brisbane, QLD, Australia. 5Department of Endocrinology and Diabetes, Queensland Children's Hospital, Brisbane, QLD, Australia. 6Department of Pediatrics, University of California, San Francisco, San Francisco, CA, USA. 7Department of Pediatrics and Adolescent Medicine, Johannes Kepler University Linz, Linz, Austria. 8Institute of Metabolism and Systems Research, University of Birmingham, Birmingham, UK. 9Department of Pediatrics, Division of Endocrinology and Diabetes, Vanderbilt University School of Medicine, Vanderbilt University, Nashville, TN, USA. 10Department of Paediatric Endocrinology, Royal Manchester Children's Hospital, Manchester, UK. 11Department of Pediatrics, Osaka Hospital, Japan Community Healthcare Organization and Osaka University Graduate School of Medicine, Osaka, Japan and currently at Division of Pediatrics and Perinatology, Tottori University Faculty of Medicine, Yonago, Japan. 12Department of Pediatrics, Seoul National University Children's Hospital, Seoul, South Korea. 13Division of Pediatric Endocrinology and Center for Molecular Medicine, Karolinska Institutet, Stockholm, Sweden. 14School of medical Sciences, Department of Pediatrics, Örebro University and University Hospital, Örebro, Sweden. 15Ultragenyx Pharmaceutical Inc., Novato, CA, USA. 16Department of Medicine and Department of Pediatrics, Indiana University School of Medicine, Indianapolis, IN, USA.


Introduzione

L'ipofosfatemia X-linked (XLH), causata da mutazioni del gene PHEX, è caratterizzata da elevati livelli di FGF23, che determinano eccessiva escrezione renale di fosfato, ipofosfatemia, ridotti valori di 1,25(OH)2D e difetto di mineralizzazione ossea, con conseguente rachitismo, osteomalacia, deformità scheletriche e bassa statura. Il trattamento con sali di fosfato e forme attivate di vitamina D (Pi/D) non risolve, e talvolta esacerba, le complicanze, come nefrocalcinosi e iperparatiroidismo, e spesso non è in grado di correggere le alterazioni biochimiche e scheletriche; inoltre, gli effetti avversi gastrointestinali e la necessità di multiple somministrazioni giornaliere possono rendere più difficoltosa la compliance. La terapia con burosumab, anticorpo monoclonale contro FGF23, è stata oggetto di studi che ne hanno evidenziato i vantaggi rispetto alla terapia Pi/D e che hanno condotto all’approvazione per l’utilizzo nella pratica clinica, a partire dall’anno di età. L'inizio più precoce, anche prima dell’anno di età, della terapia Pi/D è stato associato ad un miglioramento della crescita e degli esiti scheletrici, mentre l'impatto dell'età sugli effetti del burosumab non è ancora noto.

Caratteristiche dello studio

Gli autori presentano un’analisi post hoc dello studio randomizzato di fase 3 di 64 settimane su 61 pazienti da 1 a 12 anni pubblicato da Imel e al. su Lancet nel 2019, che comparava la terapia Pi/D con il passaggio a burosumab (con dose di partenza di 0.8 mg/kg ogni due settimane ed eventuale aumento a 1.2 mg/kg ogni due settimane in base ai valori di fosfatemia). Tale studio evidenziava i vantaggi del burosumab sul metabolismo del fosfato, alterazioni scheletriche e crescita. In questo nuovo lavoro, vengono confrontati i risultati in pazienti con età <5 anni (Pi/D, n=12; burosumab, n=14) e in quelli tra 5 e 12 anni (Pi/D, n=20; burosumab, n=15). Il limite principale dello studio è il numero ridotto di pazienti nei vari sottogruppi, ma va considerato che si tratta di una malattia rara.

Risultati: tra conferme e questioni ancora aperte

In entrambi i gruppi di età, senza differenze significative tra i soggetti <5 anni e 5-12 anni, i pazienti in terapia con burosumab hanno presentato risultati migliori su fosfatemia e riassorbimento renale del fosfato rispetto ai soggetti con terapia Pi/D, i quali hanno mostrato solo minimi cambiamenti di questi parametri. In entrambi i gruppi di età, inoltre, si è notata la maggiore riduzione dei valori di fosfatasi alcalina con burosumab rispetto a Pi/D, più evidente nel gruppo 5-12 anni rispetto ai bambini <5 anni, risultato che può almeno in parte riflettere la normale diminuzione del turnover osseo con l’aumento dell’età.

La terapia con burosumab ha anche mostrato migliori risultati, rispetto alla terapia Pi/D, in entrambi i gruppi di età e senza differenze significative tra i pazienti con più e meno di 5 anni, sui segni di rachitismo e deformità degli arti inferiori, valutati tramite “Radiographic Global Impression of Change (RGI-C) rickets total score”, “total rickets severity score” e “RGI-C lower limb deformity score”.

Anche sulla crescita lineare i vantaggi della terapia con burosumab rispetto a quella con Pi/D sono stati confermati nelle due fasce di età. Tra i bambini trattati con burosumab, in quelli con età <5 anni, la crescita è risultata maggiore nelle prime 24 settimane e in seguito è rimasta stabile e nella norma, mentre nei pazienti 5-12 anni il guadagno in z-score ha continuato ad aumentare nel periodo di studio. Nel complesso, lo studio non ha dimostrato che l'inizio del burosumab prima dei 5 anni sia associato a un miglioramento della crescita rispetto all'inizio in età più avanzata e gli stessi autori concludono che sono necessari studi specifici e con maggiore dimensione campionaria.

Per quanto riguarda gli ascessi dentali, non sono stati riscontrati sotto i 5 anni, mentre si sono verificati nel 53% dei bambini sopra i 5 anni. La mineralizzazione inadeguata della dentina con conseguente allargamento della camera pulpare (via di ingresso per i microbi) sembra essere il principale meccanismo attraverso il quale XLH predispone alla formazione di ascessi dentali, ma non è ancora noto se la mineralizzazione della dentina potrebbe migliorare con il ripristino della normale omeostasi del fosfato con burosumab e se quindi la terapia con burosumab in età più precoce possa ridurre la predisposizione ad ascessi. Un altro tema che andrà approfondito con ulteriori studi è l’effetto a lungo termine del burosumab sulla nefrocalcinosi.

Nel complesso l’articolo evidenzia come i vantaggi del burosumab rispetto alla terapia Pi/D si confermino nelle diverse fasce di età pediatrica, ma sono necessari altri studi per valutare i vantaggi a lungo termine di un inizio più precoce della terapia con burosumab.

 

 Valeria Castorani

Il rapporto albuminuria/creatininuria (ACR): utile strumento di screening per individuare quegli adolescenti a più alto rischio di sviluppare retinopatia diabetica

Diabetologia 2022 May;65:872-878.  doi: 10.1007/s00125-022-05661-1

https://doi.org/10.1007/s00125-022-05661-1

Titolo originale: Urinary albumin/creatinine ratio tertiles predict risk of diabetic retinopathy progression: a natural history study from the Adolescent Cardio-Renal Intervention Trial (AdDIT) observational cohort

I terzili del rapporto albumina/creatinina urinarie quali predittori del rischio di progressione di retinopatia diabetica: lo studio osservazionale Adolescent Cardio-Renal Intervention Trial (AdDIT)

Benitez-Aguirre PZ1,2, Marcovecchio ML3, Chiesa ST 4, Craig ME1,2,5, Wong TY6,7,8, Davis EA9,10 et al.

1Institute of Endocrinology and Diabetes, The Children's Hospital at Westmead, Sydney, Australia. 2Discipline of Child and Adolescent Health, University of Sydney, Sydney, NSW, Australia. 3Department of Paediatrics, University of Cambridge, Cambridge, UK. 4Institute of Cardiovascular Science, University College London, London, UK. 5School of Women's and Children's Health, University of New South Wales, Sydney, NSW, Australia. 6Centre for Eye Research Australia, Melbourne, VIC, Australia. 7Singapore Eye Research Institute, Singapore National Eye Centre, Singapore, Singapore. 8Duke-NUS Medical School, National University of Singapore, Singapore, Singapore. 9Department of Endocrinology and Diabetes, Princess Margaret Hospital for Children, Perth, WA, Australia. 10Telethon Kids Institute, University of Western Australia, Perth, WA, Australia.

Background: le complicanze vascolari correlate al diabete come la cardiopatia, la nefropatia e la retinopatia diabetica, influenzano negativamente la prognosi a lungo termine dei bambini con diabete mellito tipo 1 (T1D). Uno scarso controllo glicemico e valori elevati di emoglobina glicosilata costituiscono ad oggi i principali fattori di rischio per l’insorgenza di complicanze a lungo termine.

Negli ultimi anni, tuttavia, sta nascendo sempre più l’esigenza di individuare nuovi marker che permettano di caratterizzare, quanto più rapidamente possibile, quei soggetti a maggior rischio di insorgenza di complicanze correlate al T1D. In tal senso, un numero crescente di studi ha dimostrato come la concentrazione di albumina urinaria e nello specifico il rapporto albuminuria/creatininuria (ACR) potrebbe costituire un efficace indice predittivo di insorgenza di complicanze vascolari in pazienti con T1D.  Alcuni autori hanno infatti dimostrato come valori elevati di ACR siano da considerarsi indicativi di una condizione pre-clinica di endoteliopatia sistemica correlata al diabete caratterizzata da alterazioni micro-vascolari sia a livello retinico che cardiaco e di uno spessore maggiore dell’intima media carotidea.

Pochi dati sono stati tuttavia pubblicati sulla popolazione pediatrica; pertanto l’Adolescent Type 1 Diabetes Cardio-Renal Interventional Trial (AdDIT) ha realizzato uno studio prospettico osservazione internazionale nel quale ha arruolato 710 adolescenti con T1D (età media al baseline: 14.3 ± 1.6 anni; durata media di malattia di 7.2 ± 3.3 anni) con l’obiettivo di dimostrare se valori ai limiti superiori di norma di ACR risultassero o meno correlati con un aumentato rischio di progressione di retinopatia diabetica, indipendentemente dal controllo glicemico dei pazienti.

Tutti i partecipanti allo studio hanno eseguito ogni anno il regolare follow-up diabetologico ed hanno riportato valori di albuminuria persistentemente in range. Al momento dell’arruolamento, tutti i pazienti sono stati suddivisi tra coloro che presentavano valori di ACR ai limiti superiori di norma (ACR > 1.2) “high ACR” (200 pazienti) (HbA1c media al baseline: 8.5%) e coloro che presentavano valori di ACR perfettamente in range (ACR 0.8-1.2) o ai limiti inferiori di norma (ACR < 0.8) “low ACR” (510 pazienti) (HbA1c media al baseline: 8.4%).

Durante il follow-up, è stata valutata per ciascun paziente la presenza o meno di retinopatia diabetica al terzo stadio (3DR). Mediante l’analisi di regressione multivariata di Cox, è stato analizzato il rapporto fra l’incidenza di 3DR e più alti valori di ACR, di emoglobina glicosilata, di pressione arteriosa, di colesterolo LDL e di BMI.

Risultati: dopo circa 3.2 anni di follow-up, 83/710 (12%) dei pazienti arruolati ha sviluppato retinopatia diabetica al terzo stadio (3DR). Lo studio ha inoltre dimostrato come valori di ACR ai limiti superiori di norma (high ACR), pur rimanendo entro il range della normo-albuminuria, correlino con un aumentato rischio di 3DR, a parità di valori di emoglobina glicosilata. Inoltre è stato descritto come nel gruppo di pazienti “high ACR”, valori medi maggiori di emoglobina glicosilata (≥ 8.9%) non modifichino significativamente il rischio di insorgenza di 3DR, suggerendo che il rischio di progressione di complicanze microvascolari può risultare assolutamente indipendente dalla qualità del controllo glicemico del paziente.  Sembrerebbe pertanto che i pazienti con valori di ACR maggiori, abbiano una maggiore predisposizione a sviluppare disfunzioni endoteliali a livello sistemico tali da indurre una più rapida insorgenza di 3DR. Tale predisposizione potrebbe basarsi su meccanismi genetici ma anche metabolici che andrebbero a modulare il rischio di insorgenza di tali complicanze. Questo dato è assolutamente rilevante per le implicazioni cliniche che sottende dal momento che sottolinea come diventi fondamentale ad oggi utilizzare programmi di screening dettagliati che includano la valutazione dell’ACR per individuare prontamente e monitorare in maniera puntuale quei pazienti a più “alto rischio” di complicanze. 

Inoltre, nel gruppo dei “low ACR”, coloro che presentavano un valore maggiore di emoglobina glicosilata, registravano anche un aumentato rischio di 3DR, simile a quello del gruppo degli “high ACR”.  Infine, un precoce aumento della pressione arteriosa diastolica, pur rimanendo entro i percentili di norma, incrementava significativamente il rischio di insorgenza di 3DR.

Punti di forza dello studio: uno studio internazionale con un ampio numero di pazienti arruolati e con metodiche standardizzate per l’analisi dei campioni.

Limiti dello studio: breve periodo di follow-up, analisi post-hoc delle coorti di studio.

Commenti: lo studio ha il merito di aver evidenziato come la valutazione dell’ACR all’esordio e durante il successivo follow-up dei pazienti con T1D, risulti fondamentale e costituisca uno strumento affidabile per identificare precocemente quegli adolescenti a più alto rischio di complicanze vascolari e che pertanto potrebbero beneficiare di interventi terapeutici quanto più precoci e personalizzati possibili.


 Assirilli Valentina

Il dosaggio dell’LH urinario: possiamo azzardare uno screening della Pubertà Precoce?

J Clin Endocrinol Metab. 2022 Mar 24;107(4):e1673-e1678. doi: 10.1210/clinem/dgab806. PMID: 34758085.

https://doi.org/10.1210/clinem/dgab806

Titolo originale: Reproducibility and Refinement of Urinary LH in the Screening of Progressive Puberty in Girls

Riproducibilità ed accuratezza dell'LH urinario nello screening della Pubertà Precoce Progressiva nelle bambine

Zung A1,2,3, Nachmany A1, Burundukov E2, Glaser T2, Straussman S2

1Division of Pediatrics, Kaplan Medical Center, Rehovot, Israel. 2Pediatric Endocrinology Unit, Kaplan Medical Center, Rehovot, Israel. 3The Hebrew University of Jerusalem, Jerusalem, Israel.

Il dosaggio delle gonadotropine urinarie sulla prima minzione del mattino (FVU-LH) è emerso negli ultimi anni come possibile test di screening della Pubertà Precoce Centrale (PPC). Sebbene il test di stimolazione con GnRH rappresenti tuttora il gold standard per la diagnosi, si tratta di una procedura invasiva e dispendiosa che richiede ripetuti prelievi di sangue e che non sempre riesce a distinguere tra le forme progressive e non progressive di pubertà precoce (PP).

Il razionale del FVU-LH si basa sulla escrezione urinaria delle gonadotropine e sul loro fisiologico incremento in fase di attivazione dell’asse puberale. Come ben noto, infatti, l’aumento della frequenza e della ampiezza della secrezione pulsatile di gonadotropine, e in particolare dell’LH, avviene durante le ore notturne; in questo modo, il dosaggio delle prime urine del mattino permetterebbe di riflettere la secrezione gonadotropica notturna. Il test è semplice e non invasivo, per cui può essere facilmente ripetuto durante il follow-up di bambini con sospetta PP.

In uno studio precedente (1), gli autori dell’articolo avevano identificato in una piccola coorte (47 pazienti) il cut-off FVU-LH di 1.16 UI/L come indicativo di attivazione puberale, riportando una migliore sensibilità, specificità e valori predittivi positivi e negativi (VPP e VPN) rispetto ai parametri del GnRH test. Sebbene tale cut-off non sia così lontano da quello riscontrato in altri lavori della letteratura (2), questo test è considerato ancora relativamente nuovo e non è stato ampiamente accettato nell’iter diagnostico della PP.

In questo studio, gli autori hanno valutato la riproducibilità di due campioni consecutivi di FVU-LH e la loro correlazione con il picco di LH al GnRH test. Infine, hanno confrontato la capacità predittiva e il valore diagnostico di FVU-LH e del picco di LH al GnRH test nel differenziare la PPC progressiva da quella non progressiva.

Sono state esaminate retrospettivamente le cartelle cliniche di 95 pazienti femmine seguite per sospetta PPC presso la clinica del Kaplan Medical Center in Israele. Questo è stato possibile in quanto dal precedente studio, il dosaggio del FVU-LH tramite immunochemiluminescenza era stato incluso nel work-up diagnostico delle pazienti con sospetta PPC.

In base alle caratteristiche cliniche e laboratoristiche, le pazienti sono state distinte in due gruppi:

62/95 pazienti affette da PPC progressiva e 16/95 pazienti affette da PPC non progressiva. In 17 casi non era stato possibile eseguire alcuna assegnazione per dati clinici insufficienti. Una prima criticità evidente è rappresentata dalla presenza di due gruppi numerosamente disomogenei tra loro. Purtroppo, non viene specificato quante pazienti sono state successivamente sottoposte a trattamento frenante con GnRH analogo, ma ciò non rientra nello scopo dello studio.

La definizione della PPC progressiva prevedeva il riscontro di cut-off ormonali di picco LH al GnRH test > 5 UI/L e valori di FVU-LH > 1.16 UI/L, insieme alla presenza di almeno uno dei seguenti criteri: avanzamento dell’età ossea > 1 anno rispetto alla età cronologica e velocità di crescita > 2 SDS. Non viene invece data importanza alle caratteristiche ecografiche uterine e ovariche.

Sono state analizzate 114 coppie di test FVU-LH, eseguiti in due giorni consecutivi, e di ogni test accoppiato sono stati valutati il valore di LH urinario (ULH) più basso, il valore di ULH più alto e la media dei due valori, che sono stati poi singolarmente correlati con i risultati del GnRH test.

I valori di ULH del test accoppiato mostravano una buona correlazione tra loro, valutata attraverso l’analisi di regressione (r=0.83 , p<0.001). In 16 casi/114 (18.2%) il primo e il secondo campione mostravano valori identici, mentre in 23/114 (20%) non erano sincronizzati, vale a dire che un valore di ULH era inferiore al cut-off, mentre l’altro superava il limite di 1.16 UI/L e in 16/23 casi i parametri clinici erano compatibili con la PPC progressiva. Questo avvalora l’ipotesi per cui il valore più elevato dei due test sia quello più attendibile. Gli autori ipotizzano inoltre come la discrepanza tra i due campioni accoppiati di ULH possa essere spiegata dalla episodica secrezione gonadotropica oppure da una non ottimale raccolta del campione.

Per quanto riguarda la concordanza del ULH con il GnRH test si riscontrava una buona correlazione tra i valori di ULH più alti e il picco di LH (r=0.674, p<0.001). Al contrario, nessuno dei valori di ULH era correlato con il picco di FSH.

Per quanto riguarda il dosaggio delle gonadotropine di base si evidenziava una buona correlazione di tutti i valori di ULH (alto, basso e media) con i livelli basali di LH ed FSH, sebbene i valori più bassi di ULH non avessero una correlazione significativa con FSH.

Confrontando la capacità dei due test nella predizione dell’outcome delle forme di PPC (progressiva o non progressiva) nessuno dei due si è dimostrato sufficientemente adeguato.

I valori più elevati di ULH mostravano una migliore sensibilità e un migliore VPN rispetto ai valori di picco LH al GnRH test, mentre questi ultimi mostravano una migliore specificità e VPP.

Dai risultati di questo studio si evince una buona riproducibilità dei 2 campioni consecutivi, con un vantaggio per l’esecuzione di un test ULH doppio, poiché è il valore più elevato delle 2 misurazioni consecutive ad essere meglio correlato con i livelli basali di gonadotropine e con il picco di LH al GnRH test. Tuttavia, non si dimostra utile nella distinzione tra le forme di PPC progressive e non progressive. 

Commento:

I risultati dello studio  aprono nuove prospettive nel percorso diagnostico della PPC. L’utilizzo di questo test potrebbe essere d’aiuto nel selezionare i pazienti che necessitano di un GnRH test e coloro che, invece, possono proseguire un follow-up clinico evitando di essere sottoposti ad un test invasivo . Come dimostrato, questo test ha una sensibilità più elevata rispetto al GnRH test, sebbene ancora non ottimale, con un valore predittivo positivo che si avvicina a quest’ultimo.

Alla luce del grande potenziale diagnostico, si rendono necessari ulteriori studi su più ampie casistiche per validare questi dati promettenti.