11/2017

A cura di

Tommaso Aversa (Messina), Donatella Capalbo (Napoli) e Anita Morandi (Verona)

 

Massolt ET, Meima ME, Swagemakers SMA, et al. Thyroid State Regulates Gene Expression in Human Whole Blood. J Clin Endocrinol Metab. 2017 Oct 23. doi: 10.1210/jc.2017-01144. [Epub ahead of print]

Questo studio olandese analizza gli effetti della funzionalità tiroidea sulla espressività genica nel sangue periferico. Lo studio è stato condotto su 8 pazienti adulti (4 maschi) con carcinoma della tiroide, sottoposti a tiroidectomia. Questi soggetti sono stati valutati dapprima in condizione di ipotiroidismo, al momento dell’esecuzione di un trattamento radiometabolico con I131, e successivamente al riavvio della terapia con levotiroxina, in condizione di ipertiroidismo subclinico. Gli autori, attraverso una next generation sequencing dell’RNA hanno potuto constatare come vi siano 486 geni che sono espressi in maniera differente in base allo stato di funzionalità tiroidea, con una differenza di almeno 1,5 volte. Il 76% di questi geni ha subito una up regulation ed il 24% una down regulation. Attraverso una analisi di ontologia genica gli autori sono riusciti a dimostrare che l’allungamento durante la trascrizione e l’emostasi sono tra i processi biologici che più risentono dello stato tiroideo. La funzionalità tiroidea pertanto non influenza solo i leucociti, ma anche le piastrine. Infatti molti dei geni che subiscono una up regulation riguardano fattori piastrinici specifici. Ovviamente, essendo le piastrine anucleate, il loro mRNA deriva dai precursori nucleati.

Gli autori sostengono pertanto che i livelli degli ormoni tiroidei influenzano in maniera positiva l’attività protrombotica piastrinica. Tale dato è in accordo con quanto già noto in letteratura relativamente all’aumentato rischio trombotico dei pazienti con ipertiroidismo e ne spiega in una certa maniera il meccanismo fisiopatologico di base.

 

Caleyachetty R, Thomas GN, Toulis KA, et al. Metabolically Healthy Obese and Incident Cardiovascular Disease Events Among 3.5 Million Men and Women. J Am Coll Cardiol. 2017 Sep 19;70(12):1429-1437. doi: 10.1016/j.jacc.2017.07.763.

Questo è un interessante lavoro epidemiologico svolto su un database elettronico che comprende una coorte di 3,5 milioni di persone. Gli autori dimostrano che anche i cosiddetti pazienti con obesità metabolicamente sana presentano, rispetto ai normopeso metabolicamente sani, un 49% di rischio in più di sviluppare patologia coronarica, un 7% di rischio in più di patologie cerebrovascolari e ben un 97% di rischio in più di andare incontro a scompenso cardiaco. Nello studio viene inoltre dimostrato che anche i soggetti normopeso non metabolicamente sani (con dislipidemia, ipertensione arteriosa o diabete), presentano un aumentato rischio cardiovascolare.

Alla luce dei risultati di questo studio, il concetto di obesità metabolicamente sana, abbastanza in voga in questo periodo, andrebbe probabilmente rivisto, poiché tale definizione suggerisce implicitamente una condizione benigna. Invece, l’aumentato rischio di patologia cardiovascolare anche in questi soggetti dovrebbe supportare l’idea che l’obesità è di per sé una patologia.

 

Kolby N, Busch AS, Aksglaede L, et al. Nocturnal urinary excretion of FSH and LH in children and adolescents with normal and early puberty. J Clin Endocrinol Metab October 2017, 102(10):3830-3838. doi: 10.1210/jc.2017-01192.

La misurazione dei livelli circolanti di FSH e LH basali o dopo stimolazione con GnRH viene comunemente utilizzata nella valutazione diagnostica dei disordini puberali. Tuttavia, il valore basale di gonadotropine risulta di difficile interpretazione e in molto casi non è informativo; il test da stimolo con GnRH rappresenta il gold-standard nella diagnostica delle anomalie puberali ma la sua esecuzione richiede l’ospedalizzazione ed esistono solo pochi dati normativi per i valori di FSH e LH dopo stimolo.

Recentemente è stato suggerito che la misurazione di FSH e LH urinari su campione di urine mattutino possa riflettere adeguatamente l’aumento della secrezione pulsatile delle gonadotropine che avviene in pubertà e possa rappresentare una valida alternativa per il loro dosaggio nella valutazione dei disordini puberali.

Scopo di questo studio è stato quello di valutare su una grande coorte di soggetti sani i livelli urinari e sierici di LH e FSH in relazione ad età, sesso e sviluppo puberale e di testare l’utilizzo clinico delle gonadotropine urinarie nella diagnostica e nel monitoraggio della pubertà precoce.

Sono stati arruolati nello studio 843 bambini e adolescenti sani, di età compresa tra 5.8 e 19.4 anni (età media 10.9 anni), proveniente dalla popolazione del COPENHAGEN Puberty Study e 25 bambine con sospetta Pubertà Precoce Centrale (PPC).

I soggetti sani sono stati sottoposti a valutazione clinica dello stadio puberale e dosaggio di FSH e LH su siero e su campione di urine mattutino; nelle 25 bambine con sospetta PPC a queste valutazione è stato aggiunto il test da stimolo con GnRH. Nelle 13 pazienti che avevano ricevuto diagnosi di PPC tutte queste valutazioni sono state anche ripetute dopo 3 mesi di trattamento frenante la pubertà.

Nei soggetti sani i livelli urinari di FSH e LH incrementavano significativamente con l’aumentare dell’età e della maturazione puberale (si rimanda alla tabella supplementare 2 del lavoro per i valori medi di FSH e LH stratificati per età e sesso); inoltre vi era significativa correlazione tra i valori di FSH e LH urinari e i valori di FSH e LH sierici sia nelle ragazze (r=0.692, P<0.001 and r=0.880, P<0.001) che nei ragazzi (r=0.822, P<0.001 e r=0.885, P<0.001) rispettivamente.

Nelle bambine con PPC i valori di LH urinari erano elevati nella maggior parte dei casi e correlavano significativamente con il valore basale di LH (r=0.871, P<0.001) e con il picco di LH dopo GnRH (r=0.820, P< 0.001). I valori di LH urinario espressi in SDS per età erano significativamente maggiori nelle bambine con PPC rispetto a quelle con telarca prematuro (P=0.002), mentre quelli di FSH non risultavano incrementati; infine, i valori di LH urinario dopo 3 mesi di terapia frenante la pubertà presentavano una soppressione paragonabile a quella dei valori di LH basali e dopo stimolo.

Questo interessante lavoro è il primo a fornire i ranges di riferimento delle gonadotropine urinarie rispetto ad età, sesso e stadio puberale su una popolazione di soggetti molto ampia. Inoltre, i risultati di questo studio suggeriscono che le concentrazioni urinarie di LH potrebbero essere utilizzate come marker diagnostico nei soggetti con PPC e come metodo di monitoraggio durante il trattamento frenante la pubertà.

 

Quigley CA, Child CJ, Zimmermann AG, Rosenfeld RG, Robison LL, Blum WF. Mortality in Children Receiving Growth Hormone Treatment of Growth Disorders: Data From the Genetics and Neuroendocrinology of Short Stature International Study. J Clin Endocrinol Metab. 2017 Sep 1;102(9):3195-3205. doi: 10.1210/jc.2017-00214.

Sebbene il trattamento con ormone della crescita sia generalmente ritenuto sicuro per quanto riguarda le indicazioni approvate, è stata posta preoccupazione riguardo l’eventuale incremento di mortalità in soggetti trattati con GH durante l’infanzia.

L’obiettivo di questo studio multinazionale, prospettico-osservazionale, è stato quello di verificare il tasso di mortalità (SMR) in bambini trattati con GH. L’outcome principale valutato è stato il rapporto standardizzato di mortalità (SMR) che esprime il rapporto tra numeri di morti osservate e numero di morti attese in base ai dati della popolazione generale per età e sesso; a tale scopo sono stati analizzati i dati ottenuti dallo studio GeNeSIS, uno studio osservazionale condotto tra il 1999 e il 2015 (827 studi in 30 paesi) per il monitoraggio dell’efficacia e della sicurezza della terapia con GH in pazienti con vari disordini della crescita. In totale sono stati analizzati i dati di 9504 pazienti trattati con GH e seguiti per più di 4 anni (follow-up medio 7.1±2.6 anni). Circa 2/3 di questa popolazione era affetta da GHD (45% idiopatico, 17% organico) mentre in 1/3 dei casi l’eziologia era differente dal GHD: idiopathic short stature (ISS), bassa statura in piccoli per età gestazionale (SGA), sindrome di Turner, anomalie del gene SHOX (SHOX-D), Insufficienza renale cronica (IRC), altro.

In totale sono stati registrati 42 casi di morte (SMR 0.77; 95%C.I. 0.56-1.05) nell’intera coorte. La mortalità risultava significativamente aumentata nei soggetti con storia di pregressa neoplasia maligna (SMR 6.97; 95% CI 3.81-11.69). Un lieve aumento della mortalità veniva inoltre osservato nel gruppo di soggetti con quadri sindromici o anomalie genetiche (e.g. Adrenoleucodistrofia, Sindrome di Down accompagnata da IRC, Anemia di Fanconi, LES, Distrofia muscolare di Duchenne) (SMR 2.47, 95%CI, 0.99-5.09).  Non vi era invece significativo aumento della mortalità per i casi con diagnosi di GHD (SMR 0.11; 95%CI 0.02-0.33), ISS (SMR 0.20; CI 0.01-1.10), SGA (SMR 0.66; 95% CI, 0.08-2.37), Turner (SMR 0.51; 95% CI 0.06-1.83) SHOX-D (SMR 0.83; 95% CI 0.02-4.65), o neoplasia benigna (SMR 1.44; 95% CI 0.17-5.20).

In conclusione i dati di questo studio suggeriscono che la mortalità non è aumentata in bambini e adolescenti trattati con GH e con diagnosi di GHD, ISS, SHOX-D, SGA, sindrome di Turner o neoplasia benigna. Un aumento della mortalità è stato riscontrato in soggetti con pregresse neoplasie maligne o anomalie sindromiche, condizioni che possono di per sé presentare fattori di rischio e per le quali risulta pertanto difficile stabilire la relazione tra mortalità ed esposizione al GH. Tali risultati vanno comunque interpretati alla luce dei limiti metodologici dello studio quali, in particolare, l’assenza di un gruppo di soggetti con le stesse diagnosi ma non trattati con GH e il limitato periodo di follow-up che non consente di valutare eventuali eventi fatali a distanza di molti anni dal trattamento.   

 

Flynn JT, Kaelber DC, Baker-Smith CM, et al. Clinical Practice Guideline for Screening and Management of High Blood Pressure in Children and Adolescents. Pediatrics. 2017 Sep;140(3). pii: e20171904. doi: 10.1542/peds.2017-1904. Epub 2017 Aug 21.

Si tratta delle nuove linee guida dell’Accademia Americana di Pediatria per lo screening e la diagnosi di ipertensione nel bambino. Sostituiscono il IV Report, normalmente seguito, per lo meno per quanto riguarda definizioni, percentili e cut-off di riferimento, da tutti i pediatri. Presentano vari motivi di interesse:

  • La valorizzazione dell’obesità quale condizione a particolare rischio di ipertensione, che comporta necessità di monitoraggio pressorio molto più frequente che nei bambini sani;
  • La valorizzazione dell’obesità quale condizione che, unitamente ad età maggiore di 6 anni e mancanza di segni/dati anamnestici suggestivi di ipertensione secondaria, giustifica un atteggiamento attendista per quanto riguarda il work-out diagnostico approfondito per l’esclusione di ipertensione secondaria (giustificato attendere una ri-misurazione dopo counselling e intervento nutrizionale, di durata variabile a seconda della gravità dell’ipertensione);
  • L’ approfondimento, rispetto al IV report, del ruolo dell’Holter pressorio, specialmente per la diagnosi di white coat hypertension o di ipertensione latente, con la tabulazione di precisi criteri interpretativi mutuati dalle linee guida dell’AHA del 2014, ovviamente non disponibili ai tempi del IV report;
  • L’ inclusione di percentili nuovi e più restrittivi rispetto al IV report, derivati dalla rianalisi della popolazione pediatrica utilizzata per il quarto report ma dopo sottrazione dei bambini con obesità.

 

Wahl S, Drong A, Lehne B, et al. Epigenome-wide association study of body mass index, and the adverse outcomes of adiposity. Nature. 2017 Jan 5;541(7635):81-86. doi: 10.1038/nature20784.

Si tratta di un articolo importantissimo e bellissimo. In un momento in cui le relazioni ai convegni e le review scientifiche contrappongono la genetica, quale chiave esplicativa ormai desueta, all’ epigenetica, quale vero strumento esplicativo del futuro, e tendono a identificare la genetica come “l’immutabile” e l’epigenetica come il “modificabile, il plasmabile attraverso i fattori ambientali e intrauterini”, questo lavoro dimostra, attraverso un’analisi epigenomica associata all’ analisi di vari polimorfismi associati all’ obesità, che in realtà la maggior parte delle modifiche epigenetiche sono conseguenza e non causa di obesità e di relative complicanze, rovesciando un paradigma che sta rischiando, negli ultimi anni, di diventare dogmatico.  I dati di questo lavoro dimostrano che epigenetico non significa per forza di origine ambientale e dovrebbero essere tenuti presenti nell’ interpretazione di future evidenze sulle associazioni fra epigenetica e obesità.