8/2020

A cura di Chiara Mameli

Anna Parviainen et at.  the Finnish Pediatric Diabetes Register.
Decreased Incidence of Type 1 Diabetes in Young Finnish Children
Diabetes Care 2020 Dec; 43(12): 2953-2958.

 

In Finlandia, Stato con la più alta incidenza diabete di tipo 1, negli anni 1980-2005 è stato segnalato un tasso di incidenza di diabete di tipo 1 in costante aumento, soprattutto nei bambini di età inferiore a 5 anni. Successivamente dal 2006 al 2011 è stata invece riportata una fase di “plateu” delle nuove diagnosi.  

Questo studio riveste una particolare importanza in quanto permette di avere delle informazioni sul trend di incidenza del diabete di tipo 1 in età pediatrica grazie all’utilizzo di un registro nazionale. Tale strumento epidemiologico non è ad oggi purtroppo presente ed utilizzato in molti Paesi.

Lo studio ha l’obiettivo di valutare il trend di incidenza del diabete di tipo 1 in Finlandia utilizzando il registro nazionale dedicato alla patologia. Sono stati inclusi bambini di età compresa tra 6 mesi e 15 anni con diagnosi di diabete tipo 1 avvenuta tra il 2003 e il 2018. È stato calcolato il tasso di incidenza, per sesso, per 100.000 persone/anno.  Le nuove diagnosi sono state suddivise in gruppi di età: 0.5-4.99 anni, 5-9.99 anni e 10-14.99 anni.

Nel periodo di osservazione sono stati diagnosticati 7,871 bambini (51.6% maschi). L’età media alla diagnosi è aumentata passando da 7.88 a 8.33 anni. Il tasso di incidenza della patologia si è ridotto (da 57,9/100.000 nel periodo 2003-2006 a 52,2/100.000 nel periodo 2015-2018). La riduzione osservata è legata al numero inferiore di casi diagnosticati nei bambini più piccoli, per entrambi i sessi. Nel gruppo di età 5-9.99 anni si è osservata una riduzione dei casi solo nei soggetti di sesso femminile. Nessuna differenza è invece emersa nel gruppo di soggetti più grandi.

Questo studio mostra come l'incidenza del diabete di tipo 1 sia diminuita nei bambini finlandesi tra il 2003 e il 2018, soprattutto nei bambini di età inferiore ai 5 anni. Esso riporta l’attenzione sulla possibilità di diversi meccanismi patogenetici nelle diverse età pediatriche. In particolare si ipotizza che alla base della riduzione dell’incidenza nei bambini di età inferiore ai 5 anni vi sia stata negli anni una modificazione di fattori ambientali immunomodulanti e scatenanti la malattia stessa. Tra i fattori ipotizzati ma non accertati (il registro non ha come finalità la ricerca di un legame causale tra fattori ambientali e malattia) vi è l’implementazione della vaccinazione contro il rotavirus, una maggiore sensibilità alla prevenzione e al trattamento del deficit di vitamina D e l’uso più frequente di probiotici.

Considerando il momento storico che stiamo vivendo credo che questo studio abbia il limite di averci presentato solo i dati provenienti negli anni “pre-pandemici”. Di particolare interesse sarà valutare il tasso di incidenza negli anni 2019 e 2020 alla luce della pandemia da SarsCOV-2 in corso.

LINK: https://doi.org/10.2337/dc20-0604

 

 

A cura di Rita Ortolano

Pecere A, Caputo M, Sarro A, Ucciero A, Zibetti A, Aimaretti G, Marzullo P, Barone-Adesi F.

Methimazole Treatment and Risk of Acute Pancreatitis: A Population-based Cohort Study.

J Clin Endocrinol Metab. 2020 Dec 1;105(12):dgaa544.

 

Il Metimazolo (MMI) è il farmaco di prima scelta per il trattamento dell’ipertiroidismo. Gravi eventi avversi come l’agranulocitosi e l’epatite sono noti da tempo, ma nel Gennaio del 2019 l’European Medicine Agency (EMA) ha lanciato un allarme per il rischio di insorgenza di pancreatite acuta (PA) secondaria all’utilizzo del MMI, in seguito alla pubblicazione di 7 casi e di uno studio crossover.

In questo lavoro italiano viene valutata l’associazione tra MMI e PA. Si tratta di uno studio retrospettivo effettuato sulla popolazione della Regione Piemonte nel periodo compreso tra Gennaio 2013 e Dicembre 2018, su pazienti di età superiore ai 18 anni con nuova diagnosi di ipertiroidismo e trattati con MMI. È stato valutato l’indice di ospedalizzazione per PA durante i primi 18 mesi di trattamento. La popolazione generale della regione Piemonte è stata utilizzato come gruppo di controllo. Nei nuovi casi di ipertiroidismo trattati con MMI nel periodo analizzato (23087 pazienti) è emerso un aumentato rischio di ospedalizzazione per PA nei primi 3 trimestri di terapia che scompare successivamente. Il rischio assoluto di PA nei primi 18 mesi di terapia variava tra lo 0.02% e lo 0.39% a seconda dell’età e del sesso, con maggior rischio nei soggetti anziani e di sesso femminile. Lo studio suggerisce che sussiste un aumentato rischio di PA nei primi mesi di utilizzo di MMI, ma che tale rischio possa essere considerato basso nei più giovani e moderatamente più frequente nella popolazione anziana. Emerge inoltre tale rischio sussiste solo nei primi 3 mesi di trattamento.

Limiti dello studio: non si conosce la severità dell’ipertiroidismo nella popolazione analizzata, il che potrebbe giocare un ruolo nel rischio di insorgenza di PA; non è stato valutato se dosi più elevate di MMI si associano ad un aumentato rischio di PA e soprattutto non si conoscono le condizioni preesistenti, in particolare la funzionalità pancreatica prima del trattamento. Essendo il rischio più elevato nella popolazione anziana, è lecito ipotizzare che le condizioni preesistenti possano giocare un ruolo cruciale nell’insorgenza di PA; pertanto, studi futuri andrebbero condotti per valutare tali aspetti. Lo studio include pazienti con età superiore ai 18 anni e nella popolazione più giovane esaminata (tra i 18 ei 30 anni) il rischio di PA è risultato piuttosto basso (tra lo 0.02-0.05%) ma non assente. Per quanto noto, non ci sono studi che coinvolgano pazienti in età pediatrica e pertanto non è ancora noto quale sia e se vi sia un aumentato rischio di PA nei bambini e negli adolescenti. Sarebbe utile effettuare studi su popolazione pediatrica e sarebbe opportuno, prima di iniziare una terapia con MMI, valutare oltre all’emocromo e alla funzionalità epatica anche la funzionalità pancreatica, informare il paziente su tale rischio seppur notevolmente basso nella popolazione giovanile e applicare un adeguato follow-up. 

LINK: https://doi.org/10.1210/clinem/dgaa544

 

A cura di Gianluca Musolino

Dessi P. Zaharieva, Laurel H. Messer, et al.

Glucose control during physical activity and exercise using closed loop technology in type 1 diabetes

Canadian Journal of Diabetes 2020 Dec;44(8):740-749.

doi: 10.1016/j.jcjd.2020.06.003.

Linee guida per effettuare attività sportiva in sicurezza in soggetti con diabete di tipo 1 sono presenti sia per gli adulti che per la popolazione pediatrica. Il corretto adeguamento della terapia insulinica in previsione dello sport può portare a significativi benefici e alla riduzione del rischio di ipoglicemia.

Le strategie elaborate, tuttavia, sembrano focalizzarsi su pazienti che effettuano terapia multi-iniettiva o con CSII ma senza sistemi integrati. Lo sport, con il suo rapido turnover glicemico, rappresenta una sfida importante per la tecnologia del pancreas artificiale. I diversi tipi di attività fisica, nonché la sua intensità e durata, possono influenzare significativamente l’andamento della glicemia. Tutti questi aspetti, insieme al timore delle ipoglicemie, sono fattori che possono indurre i ragazzi con diabete a praticare meno sport rispetto ai loro coetanei.

In questa review sono stati valutati 20 studi che analizzano l’attività fisica e il pancreas artificiale sia in condizioni di vita reale che in trials clinici. Inoltre, sono state evidenziate le differenti strategie per ottenere un buon controllo glicemico durante lo sport usando un sistema “closed loop”.

Le principali sfide per la gestione dell’attività sportiva con l’utilizzo del pancreas artificiale sono rappresentate dal tempo di azione dell’insulina, dell’alta variabilità interindividuale di assorbimento sottocutaneo dell’insulina (che può essere fortemente accelerato durante l’attività fisica), dalla ridotta accuratezza del sensore in caso di rapido cambiamento dei valori glicemici, dal ritardo del dato fornito dal sensore rispetto al valore glicemico capillare.

Gli aggiustamenti terapeutici consigliati per lo svolgimento di attività motoria aerobica di durata >30 minuti, in soggetti che usano il microinfusore in open loop, sono rappresentati dalla riduzione del bolo del pasto precedente (riduzione del 25-75% del bolo se l’attività fisica inizia da 1 a 3 h dall’ultimo pasto; non raccomandata se l’attività fisica inizia a più di 3h dal pasto) e dalla riduzione del basale (del 50-80% 90 minuti prima dell’attività fisica fino alla fine dell’esercizio; del 20% per sei ore notturne nei soggetti con ipoglicemie tardive notturne post attività sportiva).

La strategia suggerita per i sistemi “closed loop” è rappresentata dall’uso del target glicemico temporaneo, con il quale si rende l’algoritmo meno aggressivo. Viene consigliato di impostarlo 1-2 h prima di effettuare attività fisica di bassa-moderata intensità (di durata superiore a 30 minuti), mentre non risulta necessario per attività molto intense o per lo più anaerobiche. Se il paziente è preoccupato di andare incontro ad ipoglicemia durante l’attività fisica il target glicemico più elevato dovrebbe essere impostato precocemente (2 h pre-esercizio); viceversa se si teme una iperglicemia pre-sport il target temporaneo dovrebbe partire a ridosso dell’attività sportiva (circa 45 minuti prima).

In caso di ipoglicemia tardiva oltre che usare un target più alto per molte ore post esercizio è possibile anche ricorrere alla disattivazione del sistema chiuso, per utilizzare la basale temporanea come sopra descritto.

Per gli sport in cui sia necessaria la disconnessione del microinfusore (sport di contatto, nuoto) si ricorda di sospendere l’erogazione se la rimozione della pompa supera i 15 min. Tale accorgimento è ancora più importante nei sistemi chiusi per evitare un inaccurato conteggio dell’insulina erogata, che esiterebbe in una ipo-insulinizzazione una volta che il sistema venga riconnesso al soggetto.

Il consumo di pasti e spuntini di CHO non coperti da bolo insulinico rappresenta infine un’altra sfida per il closed-loop. Tale abitudine infatti può determinare iperinsulinemia (conseguente al rialzo glicemico) durante lo sport e conseguente insorgenza di ipoglicemia durante l’esercizio fisico. Si raccomanda pertanto di posticipare il consumo di CHO o di assumere snack di piccole porzioni (10-20 grammi). Maggiori studi a tale riguardo sono necessari.

 

A cura di Domenico Corica

Naafs JC, Marchal JP, Fliers E, et al.

Cognitive and motor outcome in patients with early-detected central congenital hypothyroidism compared with siblings.

J Clin Endocrinol Metab. 2020 Dec 4;dgaa901. doi: 10.1210/clinem/dgaa901. Online ahead of print.

In questo studio trasversale, condotto in Olanda, è stato valutato l'outcome cognitivo e motorio di pazienti con ipotiroidismo congenito centrale (ICC) diagnosticati mediante screening neonatale (dosaggio di TSH, FT4 e tireoglobulina), trattati precocemente e valutati nell’arco di vent’anni. Sono stati inclusi nello studio individui con ICC isolato o affetti da deficit ipofisario multiplo (correlato nelle maggior parte dei casi a sindrome da interruzione del peduncolo ipofisario, PSIS). Questi due gruppi, costituiti rispettivamente da 35 e 52 pazienti (età mediana 11.5 anni, 7.6 - 17.9), ed un gruppo di controllo (età mediana 12.7 anni, 7.9 - 15.6) costituito da fratelli (52 soggetti), sono stati sottoposti a valutazioni cognitive e motorie mediante l’uso, rispettivamente, delle scale olandesi di Wechsler (WPPSI-III-NL, WISC-III-NL, WAIS-IV-NL) e della Motor Assessment Battery for Children-2 (MABC-2) checklist completata dai genitori. La valutazione del quoziente intellettivo (QI) costituiva l’outcome primario, mentre tra quelli secondari vi era l’analisi delle abilità motorie. Tutti i pazienti inclusi nello studio erano nati a termine, adeguati per l’età gestazionale. I pazienti affetti dalle sindromi di Kabuki, KAT6A o MEB, da trisomia del cromosoma 15, o da displasia setto-ottica severa sono stati esclusi dallo studio.

Il principale risultato che emerge dallo studio è la presenza di un QI normale nei pazienti con ICC isolato, ma significativamente ridotto nei soggetti con deficit ipofisario multiplo, rispetto ai controlli sani. Gli autori per giustificare questo risultato suggeriscono tre possibili ipotesi tra cui l’interferenza degli altri deficit ormonali ipofisari sull’outcome cognitivo, il grado più severo di ipotirodismo pre-trattamento riscontrato in questi soggetti rispetto ai casi con ICC isolato, la presenza di PSIS nella maggior parte dei pazienti con deficit ipofisario multiplo inclusi nello studio. Venivano inoltre documentati un ritardo dello sviluppo motorio e difficoltà motorie significativamente più evidenti nei casi rispetto ai controlli, sebbene questa valutazione fosse stata effettuata solo su una parte dei pazienti ed attraverso una checklist compilata dai genitori.

Uno dei principali punti di forza dello studio consiste nell’aver incluso nella valutazione cognitivo-motoria una popolazione con caratteristiche omogenee, che risultava essere la coorte più ampia descritta di pazienti con ICC diagnosticati e trattati precocemente. Tuttavia, il design trasversale dello studio non permette di chiarire se lo screening neonatale per ICC possa prevenire o ridurre l’incidenza del deficit cognitivo in questi pazienti, pertanto, saranno necessari ulteriori studi per chiarire questi aspetti.

Considerando la prevalenza di ICC, i risvolti positivi sulla salute del paziente possibilmente correlati ad una diagnosi precoce e l’opportunità di diagnosticare precocemente altri deficit ormonali qualora l’ICC non fosse isolato, sarebbe auspicabile in futuro che i programmi di screening neonatale possano essere effettuati con il dosaggio del TSH e dell’FT4 su tutto il territorio nazionale.

LINK: https://academic.oup.com/jcem/advance-article/doi/10.1210/clinem/dgaa901/6019991

 

A cura di Davide Tinti

T. Quattrin, M.J. Haller, A.K. Steck, E.I. et al. for the T1GER Study Investigators.

Golimumab and Beta-Cell Function in Youth with New-Onset Type 1 Diabetes

N Engl J Med 2020; 383:2007-2017 DOI: 10.1056/NEJMoa2006136.

Il diabete mellito di tipo 1 (DMT1) è caratterizzato da una progressiva perdita b-cellulare, fino a pressoché totale assenza di produzione insulina endogena. Nuove molecole, come i farmaci biologici usati per altre patologie autoimmuni in età pediatrica, sono in fase di studio per aumentare numero e funzione delle b-cellule, prolungando la fase di remissione successiva alla diagnosi, migliorando così il compenso metabolico fin dall’esordio.

Il Golimumab è un anticorpo monoclonale IgG1-κ, specifico per il TNF-α umano, approvato in età pediatrica per il trattamento dell’artrite idiopatica giovanile poli-articolare e per la spondiloartrite assiale in bambini di età superiore ai 2 anni. Il razionale dell’uso del Golimumab risiede nel suo ruolo bloccante il TNF-α umano, in quanto quest’ultimo risulta tossico per le b-cellule e, in modelli murini, è dimostrato promuovere lo sviluppo di DMT1.

Obiettivo dello studio è stato quello di valutare l’efficacia del Golimumab nel preservare la funzione delle b-cellule in soggetti con DMT1 (stadio 3). È stato condotto uno studio multicentrico (27 centri negli Stati Uniti) di fase 2 della durata di 52 settimane, randomizzato, controllato, doppio cieco, in cui è stato somministrato Golimumab in bambini e giovani adulti (6-21 anni) con recente esordio di diabete tipo 1. I partecipanti hanno ricevuto dosi differenti di farmaco sulla base del peso. Le prime dosi sono state somministrate sulla base del peso superiore o inferiore a 45 kg, rispettivamente 100 mg e 60 mg per m2 alla settimana 0 e 2. Successivamente, ogni 2 settimane sono state somministrate dosi di 30 mg e 50 mg per m2.

Sono stati arruolati 108 tra bambini e giovani adulti, tra cui 56 hanno ricevuto il farmaco, mentre 28 il placebo. I partecipanti hanno ricevuto in media 24.2-24.9 iniezioni (su un totale di 27 iniezioni previste). L’AUC di 4 ore del C-peptide al baseline era 0,78±0,40 pmol/ml nel gruppo Golimumab e 0,88±0,63 pmol/ml nel gruppo placebo. Alla 52° settimana, i valori erano rispettivamente 0,64±0,42 pmol/ml e 0,43±0,39 pmol/ml (P<0,001). Il differenziale medio della curva del C-peptide rispetto al baseline è stato -0,13 pmol/ml (da -0,23 a -0,03) nel gruppo Golimumab (ovvero -12%) e -0,49 pmol/ml (da -0,66 a -0,32) nel gruppo placebo (ovvero -56%). Le differenze tra i due gruppi hanno cominciato a rendersi evidenti a partire dalla 12° settimana.
I valori di HbA1c sono risultati sovrapponibili nel gruppo Golimumab e placebo al baseline (7,0±1,1% vs. 7,1±1,21,2%) e a 52 settimane (7,3±1,5% vs. 7,6±1,2%), con P=0.08. Il fabbisogno insulinico è risultato simile nei due gruppi al baseline (0,42 UI/Kg/die vs. 0,44 UI/Kg/die) mentre alla settimana 52 è risultato inferiore nel gruppo Golimumab (0,51 UI/Kg/die vs. 0,69 UI/Kg/die, P=0.001). Il numero di eventi di ipoglicemia nelle 52 settimane di studio è risultato sovrapponibile nei due gruppi (38,2 eventi contro 42,9 eventi, P=0.8). Tuttavia, nell’analisi post-hoc, è stata riscontrata una minor prevalenza di eventi ipoglicemici di livello 2 (glicemia < 54 mg/dL senza perdita di coscienza, n.d.r.) nel gruppo Golimumab (11,5) rispetto al gruppo placebo (17,6). Alla settimana 52 il numero di soggetti con risposta positiva del C-peptide al test da carico orale era 41% nel gruppo Golimumab contro solo l’11% nel gruppo placebo (differenza del 30% tra i gruppi).

Rispetto al profilo di sicurezza, il 54% dei soggetti trattati con Golimumab, ha sviluppato anticorpi contro il farmaco perlopiù a basso titolo (<1:1000). Tra questi, il 41% presentava anticorpi neutralizzanti, senza però mostrare variazioni rispetto l’efficacia o maggiori reazioni locali dopo iniezione. Nessun paziente ha mostrato infezioni severe, mentre il numero di infezioni lievi/moderate è risultato pari al 71% nel gruppo Golimumab rispetto al 61% del gruppo placebo. Nessun caso di chetoacidosi diabetica è stato riscontrato nei due gruppi. La percentuale di partecipanti con fluttuazione dei livelli dei neutrofili è stata pari al 29% nel gruppo Golimumab e 19% nel gruppo placebo. Tra questi, 4 pazienti nel gruppo Golimumab hanno manifestato una neutropenia di grado 3 o 4, mentre un paziente ha dovuto sospendere l’uso del farmaco dopo 6 mesi visti diversi episodi di leucopenia e neutropenia (seppur avesse livelli di tali popolazioni cellulari già ridotte al baseline).

Questo studio ha mostrato che Golimumab riduca il calo della produzione insulinica endogena (come indicato dall’area sotto la curva del C-peptide dopo test da carico) in bambini e giovani adulti con DMT1 all’esordio. Non sembrano invece esserci effetti collaterali maggiori tali da impedirne l’uso in clinica, con profilo di sicurezza del tutto sovrapponibile a quello mostrato in studi su altre tipologie di pazienti.

Tali dati appaiono quindi incoraggianti rispetto all’uso di farmaci biologici sul rallentamento della progressione del deficit b-cellulare nei soggetti con DMT1, con l’obiettivo attuale di facilitare la gestione domiciliare e, in ultimo, di ridurre fortemente il fabbisogno insulinico sul medio-lungo termine.

LINK: https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2006136